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  disegno P. Joubert

1945 glorioso  

 

 

In ricordo di don Nunzio

 

 

 

Ascoltiamo dalla vece di don Annunzio il racconto dei primi tempi avventurosi della "ripresa" dello Scautismo in Italia...

Zeb

 

di don Annunzio Gandolfi

 

La prima volta che sentii parlare seriamente dello scautismo fu pochi giorni dopo il 25 luglio 1943. 

Appena caduto il fascismo,monsignor Faggioli, il mitico fondatore dell’ASCI in Emilia-Romagna, e alcuni vecchi scout pensaronofoto R. Manson, 1946 subito di far rinascere lo scautismo a Bologna, ma la situazione bellica che stava precipitando lasciò poco tempo e spazio ai progetti:

vennero i bombardamenti sulle città e infine l’armistizio dell’8 settembre che chiuse ogni possibilità. 

A me rimase una copia della vecchia edizione di “Scautismo per ragazzi”, tradotta dal conte Mario di Carpegna, la cui lettura mi rincuorò durante i lunghi mesi della Resistenza e mi fu anche oltremodo utile in quelle circostanze con i suoi consigli sulla... vita all’aperto.

Nella primavera del 1945, pochi giorni dopo la liberazione, potemmo ricomporre il progetto scout fondando presso il convento di san Giuseppe quello che doveva diventare il famoso Bologna 16.

Il convento dei padri cappuccini era stato in parte distrutto dai bombardamenti: per la sede dovemmo quindi accontentarci di alcuni locali recuperati in una villetta confinante, per metà abbattuta da una bomba. 

Salendo le scale, arrivati al primo piano, occorreva girare a destra per entrare nelle uniche due stanze utilizzabili; 

se invece si girava a sinistra si correva il rischio di ritornare al piano terreno, precipitando su un mucchio di macerie. 

Dalle macerie dell’ala distrutta del convento recuperammo il legname di mobili sfasciati per costruire l’arredamento della sede. 

Una bomba caduta nel giardino pubblico aveva divelto un abete: lo raccogliemmo per scolpire un magnifico totem che ancora conservo gelosamente e molti m’invidiano. 

Le cassette per il materiale le recuperammo in collina, durante le uscite, svuotandole dei proiettili di mortaio. 

Qua e là si trovavano ancora dei depositi abbandonati di questo materiale.

Anche per metterci in uniforme scout dovemmo arrangiarci, aguzzare l’ingegno e superare molte difficoltà: 

mancava la stoffa e mancavano anche... i denari. 

In un primo tempo rimediammo con vecchie camicie militari ritrovate in una caserma abbandonata e ritinte da noi artigianalmente; i calzoni corti li ricavammo adattando e tinteggiando di blu una partita di mutandoni militari di tela grossa. 

Mancavano anche le calze e per poter indossare senza danni i grossi scarponi chiodati militari, comperati usati al mercatino, dovemmo imparare a fasciare le estremità inferiori con le cosiddette “pezze da piedi”: occorreva una notevole abilità nel sistemare le pieghe in modo che non dessero fastidi durante il cammino.

Per il cappellone, il capo di vestiario più caratteristico e ambito, fummo fortunati: alcuni li recuperammo da qualche zio che era stato scout prima del 1928, gli altri con grandi risparmi, riuscimmo a comperarli da una ditta di Biella che aveva ripreso la lavorazione. 

Il cappellone ci sembrava un elemento così caratteristico dello scautismo da non poterne fare a meno. “Nudi... ma col cappellone” avrebbe potuto essere uno slogan scout di quei tempi eroici.

Con alcuni teli mimetici mod. 29 costruimmo le nostre prime tende e affrontammo anche i temporali più violenti. 

Tre mesi dopo la fine della guerra eravamo già in grado di organizzare il primo campo estivo sull’Appennino. 

I viveri erano ancora tesserati e quindi ogni partecipante, oltre alla quota, dovette versare, anche un certo quantitativo di farina, di zucchero, di olio, ecc. Come località di campo, l’A. E. regionale offrì un suo terreno con casa, nei pressi di Monzuno, ad appena due chilometri dalla linea su cui si era fermato il fronte per tutto l’inverno. 

La casa si era fortunatamente salvata perché era stata raggiunta dagli alleati e un monte l’aveva protetta dalle cannonate tedesche.

Su quel territorio era infuriata la battaglia per mesi, per cui fummo caldamente consigliati di rimanere entro un ridotto spazio di bosco ben delineato e già bonificato; oltre ai confini segnati era possibile incappare in qualche mina o proiettile inesploso. 

Squadre specializzate di militari e di civili stavano ancora operando per bonificare i terreni circostanti dagli esplosivi e anche per recuperare i cadaveri dei soldati e le armi rimaste nei boschi.

Per raggiungere la località del campo percorremmo una decina di chilometri a piedi dalla stazione di Vado che era stata appena rimessa in esercizio. 

Ai bordi della strada erano disseminati rottami di veicoli, bossoli vuoti, cassette sfasciate per munizioni e quanto altro può abbandonare un esercito in rapido movimento. A poca distanza dalla strada, pendente a cavallo di un davanzale di una casa colonica semidiroccata, giaceva ancora il cadavere di un soldato tedesco che nessuno aveva avuto il coraggio di togliere a causa delle mine sepolte attorno all’edificio.

Il campo si svolse con grande entusiasmo e successo. 

L’esperienza ci consigliò di affrontare al ritorno il problema delle tende. 

Per questo prendemmo contatto con alcuni militari polacchi, che erano stati scout prima della guerra, e per mezzo loro ottenemmo, nell’inverno successivo, un certo numero di piccole tende da deserto che subito soprannominammo “polacchine”, un nome che a Bologna è rimasto fino ai giorni nostri per indicare quel modello. 

Andai con uno scout a recuperarle ad Ancona. 

Viaggiammo con un camion militare polacco che andava per altre ragioni in quella città e sul quale caricare fino a Faenza il prezioso dono. 

Un frate cappuccino, alcuni giorni dopo, trasportò le tende a Bologna con un barroccio trainato da un mulo. 

Prima di arrivare a Faenza, il camion deviò verso Bagnacavallo per ritirare della grappa presso una distilleria che era riuscita a salvare alcune cisterne. Ci promisero una buona bevuta per rimediare al gran freddo patito viaggiando sul cassone del camion ma la prospettiva andò a monte perché proprio quella mattina i proprietari della distilleria, facendo un’ispezione alla grande botte di cemento, avevano trovato... un tedesco morto che galleggiava sull’alcool.

Lo scautismo che ci avevano insegnato sosteneva di essere un metodo educativo “per formare la qualità del buon cittadino per mezzo della vita dei boschi” e perciò noi organizzavamo più uscite possibile e con qualsiasi tempo. Il materiale più pesante del reparto spesso lo trasportavamo con un carretto a mano, alternandoci a turno tra le stanche. 

Ovviamente lo spettacolo poteva suscitare qualche commento salace. 

Anche la sola presenza degli scout in molti paesi, soprattutto della campagna, ove dominavano con la paura forze politiche poco disposte a tollerare chi non la pensava come loro, era spesso motivo di beffeggiamenti, che non ci turbavano però più di quel tanto.

Spesso venivamo ironicamente indicati come i “balilla del Papa”. Di notte poi non era raro essere svegliati da qualche scarica di mitraglia più o meno vicina: niente paura, sapevamo che era solo l’avvertimento di un contadino dei dintorni insospettito da qualche rumore sospetto o solo dalla presenza delle nostre tende nel bosco o lungo il fiume.

In settembre l’ASCI organizzò un convegno capi a Roma. 

Decidemmo di partecipare in tre. Le ferrovie erano malandate e così impiegammo vent'otto ore per arrivare nella capitale e riuscimmo a partire solo salendo su un convoglio destinato ai profughi diretti al sud. 

Per viaggiare occorreva infatti una speciale autorizzazione. 

Facemmo così conoscenza con “i grandi capi” di Roma con i quali avremmo fatto poi con entusiasmo tanta strada insieme: 

una strada lunga fino ad oggi quarant’anni.

Tanti e anche di più di vita scout li auguro a voi.  

Annunzio  

Articolo pubblicato sulla rivista per E/G, "Scout - Avventura" (Agesci), febbraio 1985

Ringraziando Attilio Gardini - Boa Imprudente, per averlo scansionato e per avermelo inviatodisegno A. Perone

 

 

 

 

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